Vir Napule e po’ muor. Vedi Napoli e poi torni.
Napoli trip: un racconto di storie vissute o immaginate a Napoli
Tra Palermo e Napoli esiste un legame viscerale, una simpatia (in questo caso l’etimologia dal greco σύν πάϑος è azzeccatissima) istintiva e naturale, che rende sorelle le due città e ancor di più i loro abitanti.
Il culto della napoletanità a Palermo non è cosa nuova. I neomelodici sono l’espressione più popolare di quanto Napoli ci sia vicina, nella sua parte teatrale, tragicomica, passionale. Poi c’è la strada, i sorrisi, la necessità di sentirsi a casa, ovunque si vada, e di esserlo con un cielo azzurro sopra la testa.
Tutto questo “sentimento” e l’attrazione forte verso i napoletani e la napoletanità, unita a una fortissima curiosità di conoscere questa città vicina e ancora mai visitata, andavano misurati di persona. Così, ho trascorso tre giorni a Napoli a metà ottobre.
Questo che segue è un racconto di cose e luoghi visti, di persone incontrate, di storie raccontate, di storie immaginate, di storie e tante, che si potrebbero raccontare. Di un viaggio che è stato l’iniziazione di un amore per una città bellissima e che ti resta dentro. È un racconto lungo (è bene che lo sappia chi si appresta a leggerlo) che si può gustare anche a puntate, proprio come una tazzina di caffè.
Giorno 1: Venerdì
L’arrivo: dalla stazione al B&B
Arrivo presto al mattino. Prendo un volo con Alitalia e il tempo del tragitto da Palermo è davvero brevissimo: in 35 minuti sono a Capodichino. Da qui prendo la navetta bus che collega l’aeroporto alla stazione centrale. Un servizio efficiente ed economico. Con 4 euro e in 15 minuti arrivo in stazione.
Come ad ogni stazione centrale che si rispetti c’è un gran casino, lavori in corso e giusto per non farmi mancare nulla, un corteo studentesco che protesta contro l’alternanza scuola lavoro, e altre sacrosante ragioni contrarie alla buona scuola renziana. Poco male, sono dalla loro parte e sfuggo i fumogeni, facendomi guidare dal mio navigatore, verso il b&b che mi ospiterà per due notti.
L’ho trovato su Air b&b e mi sono fatta consigliare dai miei amici napoletani sulla sua posizione. Volevo un b&b centrale per potermi muovere a piedi da sola. E così è.
Il Campanile Cirillo si trova in Vico Campanile ai SS. Apostoli. Dopo qualche ora a Napoli capirò che vico sta per vicolo. Per arrivare a casa Cirillo faccio un po’ di strada a piedi, circa 15 minuti, e già mi sono innamorata di questa città. Ho le mani occupate da cellulare e trolley, altrimenti avrei già fotografato dei soggetti meravigliosi per strada e sui balconi. Un casino di ciclomotori, persone, clacson.
Su via Carbonara (che già il nome la dice lunga sulla squisitezza generosa di questa città), incrocio un giovanotto su un motorino carico come se fosse un tir. Nel facilissimo (per lui) gioco d’equilibrio tra un maxi rotolo di carta, casse d’acqua e pacchi vari, riesce a rivolgermi tutti i suoi apprezzamenti, in dialetto locale, con annessa taliata. Mi sento proprio a casa.
Il navigatore mi dice che sono quasi arrivata. Gira a destra. Mi volto e c’è un’impervia scalinata, ultimo sforzo con sollevamento di trolley per arrivare a destinazione. Ma vedo già, alla fine dei gradini, una donna che mi sorride e mi attende. È Paola, la figlia di Francesco, il proprietario del B&B. Grandi sorrisi (con un po’ di fiatone) e via verso il Vico che sta proprio accanto a una piazzetta dove c’è un liceo.
L’ingresso nel palazzo del b&b è un’ ulteriore conferma del mio sentirmi a casa e che questo posto lo sarà a tutti gli effetti per tre giorni. Una grande rampa di scale con due bracci, che portano agli appartamenti su tre piani. Il cortile ampio e fresco giù. Un’edicola votiva al piano ammezzato. Insomma, sembra uno degli edifici di Corso Vittorio Emanuele a Palermo. Solo in migliori condizioni strutturali. Qualche altro scalino e arriviamo.
IL b&b è a gestione familiare. C’è una sola stanza che è un vero e proprio monolocale, con bagno in camera e balconcino che dà sulle scale appena salite, quelle dove mi attendeva Paola. Tutto è molto curato e si percepisce un’aura artistica e creativa in famiglia! Infatti, ad attendermi, c’è anche la mamma di Paola, una simpaticissima signora che si diletta nella pittura.
Mi fanno accomodare in salotto e dopo qualche chiacchiera sembriamo già amiche di vecchia data. Paola mi prepara il caffè e dopo qualche minuto torna con tazzina e merendina rifocillante, dicendomi: “ci ho messo un po’ perché l’ho fatto con la caffettiera proprio come lo si fa a una persona di famiglia”. Credo che sia una delle cose più belle che si possano dire a una persona appena arrivata in una città che non conosce. Il caffè è buonissimo.
Ringrazio Paola e sua madre e da buona siciliana prometto di ricambiare con una cassata al prossimo soggiorno a Napoli.
Breve rientro in camera e subito fuori, dove Napoli mi attende in una bellissima e calda giornata di metà ottobre. Il periodo migliore per viaggiare.
Tra una frittatina di pasta, vicoli, il mare e Posilippo:
Questa città mi fa sorridere. Lo capisco appena giro l’angolo nella piazzetta dove c’è il liceo. Di fronte a me una cartolina naturale e spontanea: un murales in cui si uniscono metaforicamente Napoli e Parigi; una signora anziana affacciata alla finestra;un motorino appoggiato al muro. Scoprirò nel corso del viaggio che questa composizione ritorna spesso in varie parti della città, quella più popolare.
Il b&b è proprio in centro storico, alle spalle del Duomo. Mi sembra doveroso, allora, portare a San Gennaro i saluti di Rosalia. Da lì a via Tribunali, uno dei decumani del centro storico, solo qualche decina di metri. È già quasi mezzogiorno. Comincio ad aver fame e nel frattempo, seguo le tappe gastronomiche consigliatemi a distanza da Angelo.
Primo contatto con il cibo da strada napoletano: la frittatina di pasta da Di Matteo, una friggitoria-tavola calda- pizzeria sui Tribunali. Somiglia un po’ ai timballini dei Cuochini a Palermo. C’è del macinato di manzo, del formaggio, della besciamella. Buona ed economica. Tornerò a provare le altre cose.
Su Via Tribunali tanta gente: turisti ma anche napoletani. Comincio a scrutare nei vicoli ma ancora mi lascio guidare dal navigatore per capire dove andare.
Proseguo dritto sino a Piazza Dante. Da lì parte la modernità lunga, convertita a contemporaneità commerciale, della Via Toledo. La secentesca via Maqueda a Palermo è stata realizzata proprio su modello della via Toledo, ma al confronto è molto meno maestosa. Ecco, l’impressione che ho di Napoli, soprattutto se rapportata a Palermo, è che siamo di fronte a una città maestosa, imponente. Forse è una maestosità dovuta alla sfida con il vulcano, il Vesuvio, che si erge con tutta la sua impoenenza al di là del mare e che stabilisce umori e amori dei napoletani.
Percorro tutta la lunghissima via Toledo e arrivo sino a Piazza Plebiscito. È davvero grande. Non è un bluff come fu la Porta di Brandeburgo a Berlino. Lì ci rimasi un po’ male. Mi aspettavo una porta mastodontica. Invece mi sembrò una porticina d’ingresso laterale. Come le porte di servizio di un cinema.
Piazza Plebiscito invece no, non ti delude. É grande e luccicante e si sente già l’odore del mare.
Vado verso il Teatro San Carlo. Una maxi pubblicità di Netflix mi riporta alla contemporaneità senza romanticismo dei nostri giorni. Proseguo in direzione del Maschio Angioino. Intravedo il porto e poi arrivo alla piazza del Municipio. Qui attendo che Angelo finisca la sua riunione di lavoro. Sarà la mia guida per il resto del pomeriggio. Peccato che si tratti di un salernitano con uno scarso senso dell’orientamento! Ma con un gran senso dell’umorismo e tante cose da raccontare, che è decisamente meglio.
Il resto del pomeriggio è una lunghissima passeggiata sul lungomare Caracciolo. Il mare a Napoli in realtà è negato. Non c’è una vera spiaggia, e da giù, da terra, non si capisce quale sia l’estensione del golfo di Napoli (lo capirò poi, salendo a Sant’Elmo). Me lo avevano già preannunciato i miei amici napoletani, invidiando la fortuna palermitana di avere il mare in città, accessibile a tutti. A me il lungomare di Napoli ha fatto pensare a com’era il Foro Italico prima che fosse liberato dalla morsa delle giostre e dell’abusivismo.
Ad ogni modo, continuiamo a parlare, sotto un sole accecante, ma bellissimo. Sulla destra la parte collinare della città. Ecco a che servono le funicolari.
“Ma dov’è che stiamo andando?”, dico ad Angelo. Risposta pervenuta ma indefinita, sino a quando non arriviamo agli inizi di Posilippo e capiamo di aver fatto più strada del previsto. Ma è comunque bellissimo. Ci sono dei palazzi che portano testimonianza, all’esterno e a quell’interno che si scorge appena, del benessere agiato dei napoletani che stanno qui.
Da un punto in alto, da cui si vede una piccola spiaggetta, faccio una foto a una villa sul mare, contornata dalla bouganville viola. Poi, quando rientro a Palermo, scopro che si chiama Villa Anna. A me sembrava tanto la villa in cui sono ambientate alcune scene di “Totò, Peppino e la Malafemmina”. Un cult che ho visto una ventina di volte. Insomma, probabilmente non è quella la villa ma ormai nella mia testa è la villa di Totò, Peppino e la malafemmina.
Adesso ci aspetta una lunga passeggiata di rientro verso il centro. E così e molto lentamente facciamo. Ritorniamo verso via Toledo e qui ci salutiamo.
Io sono un po’ stanca e ho fame. La frittatina di pasta delle 12 necessita di un richiamo. Allora, prima di rientrare al b&b, nuova sosta da Di Matteo e questa volta per soddisfare il mio pensiero fisso della giornata: la pizza fritta. Una nuvola d’oro di ricotta, formaggio e pancetta, che mangio rovinosamente e goduriosamente, un po’ per strada, il resto in stanza. Non prima di aver provato tutto il repertorio della frittura di Di Matteo, in attesa della pizza espressa: crocchè giganti e zeppole. Un po’ deludenti in realtà. Questa volta la maestosità del pezzo non corrisponde alla bontà attesa, ma poco male: la pizza fritta non delude.
Torno al b&b, faccio una doccia e sprofondo sul letto, ma mica posso stare a casa con soli due giorni per godermi la città! E poi ho già appuntamento con Mariano per un giro serale e una birra. Napoli by night sarà magica come quella diurna?
Venerdì sera in giro a Spaccanapoli e dintorni:
Altro giro altro amico napoletano da rivedere. Mariano abita vicino ai Tribunali. Ci vediamo al Duomo e da lì cominciamo il nostro tour serale. Mariano mi porta allo Spiedo d’Oro, nella zona del mercato di Pignasecca a Spaccanapoli, dove incontriamo due suoi amici con cui trascorreremo insieme tutta la serata. Di giorno è una tavola calda, circondata di negozietti tipici da mercato. Di sera è l’unico posto in zona che ti da da bere e mangiare con pochissimo. Questa sera c’è anche un concertino fuori e giusto qualche sedia e qualche tavolo per appoggiarsi. Me lo segno. Ci devo tornare da sola domani.
Mangio polpette e patate e bevo una birra. Ma ho ancora la pizza fritta in circolo. Non riesco a mangiare tutto quello che vorrei! Forse anche per favorire la digestione, ci alziamo e ritorniamo dall’altra parte della via Toledo. Passeggiamo fino a Piazza Bellini, ci sediamo “dall’arabo”, beviamo un amaro e lì i ragazzi si mettono “anema e core” (è proprio il caso di dire) a farmi l’itinerario per i prossimi due giorni: santi e locali consigli per godere del meglio (alimentare e culturale) della città.
Dibattito su cosa inserire, punti saldi, insomma i tre arrivano a un accordo di massima su ciò che assolutamente devo vedere, fare e mangiare a Napoli nei restanti due giorni. Ci alziamo e mi accompagnano in b&b non prima però, di esser passati a salutare san Gennaro, versione gigantografia murale. È un’opera di Jorit, alta 15 metri e porta i suoi segni distintivi: sguardo fiero e linee rosse sul viso, come i combattenti indiani. Questo san Gennaro, mi dicono i ragazzi, pare che somigli a Tsipras. In effetti gli somiglia assai e l’effetto specie di notte è bellissimo. Anche questa volta è maestoso.
Un saluto al san Gennaro e poi a nanna. È stata una giornata piena e bellissima.
Giorno 2: sabato
A tu per tu con una riccia:
Se ieri il mio obiettivo era la pizza fritta, oggi il mio risveglio ha un’unica immagine: la sfogliatella. Sono a Napoli da due giorni e ancora non l’ho mangiata, anche se il suo odore pervade le strade come e quanto quello di fritto. Ad ogni modo, faccio colazione in camera, servita puntualissima e abbondante da Paola. Tutto c’è: cappuccino, yoghurt, caffè, marmellata, fette biscottate, merendine. Un po’ troppo ma una gioia per gli occhi. Devo lasciare spazio per la sfogliatella.
Anche stamattina è una giornata già calda e di sole che tutto ha, fuorché dell’autunno.
Secondo il piano dettagliato di Mariano & Co., che mi inquieta per la quantità di cose da fare in così poco tempo, la mattina deve iniziare con l’esplorazione di un altro decumano e delle meraviglie che ci sono attorno. E allora, iniziamo con una meraviglia unica al mondo: il Cristo velato della Cappella San Severo. Un gioiello piccolo ma prezioso che fa il pieno di visitatori. Ma la vera sorpresa qual è? Che una delle edicole che circondano il Cristo racchiude una statua di Santa Rosalia! Con la sua corona di rose e lo sguardo fiero, la santuzza mi osserva, come a dirmi: “Lo capisci ora perché ti senti a casa?”.
Esco sorridendo dalla Cappella, felice di questo incontro inaspettato e questa volta vado dritta dritta verso la sfogliatella di Scaturchio, una pasticceria in Piazza S. Domenico.
Eccole finalmente! Nella doppia versione riccia e frolla. Era un pensiero fisso dall’arrivo. Mariano mi ha raccomandato di mangiarle entrambe, ma forse due in una volta è un po’ troppo. Tanto ritorno. E opto per la riccia. E’ gigantesca, profumata, buonissima. Anche il caffè, necessario a far sciogliere gli zuccheri nel sangue, non delude le aspettative del buon caffè napoletano.
Arrivederci sfogliatella. Torno più tardi.
Mi dirigo verso Santa Chiara e il suo chiostro maiolicato. Avevano ragione Mariano e i suoi amici. È un posto bellissimo. Qui incontro, nell’ordine: la pace, il riposo, un attore da fiction un po’ tamarro. Sono un po’ stanca. Fa caldo. Resto qui in sosta per un po’ e poi passo alla Chiesa del Gesù. Ero già passata dalla piazza ieri sera.
Passeggio in Via dei Librai e a San Gregorio Armeno. Qui però ci sono un po’ troppi turisti. I cornetti rossi porta fortuna sono ovunque e anche i gadget costano pochissimo. Io compro le calamite più kitsch che trovo, compresa una a forma di babà!
Mi siedo accaldata. Credo di aver un abbassamento pressione e il ginocchio comincia a farmi male. Allora decido di invertire il programma della giornata. A Sant’Elmo, nella collina sulla città, andrò domani mattina. Intanto mangio e poi decido sul pomeriggio. Il programma per il pranzo prevede Tandem, ovvero il ragù più buono del mondo! Il locale, che ha diverse “filiali del ragù”, si trova vicino l’Università Federico II. Si ordina il proprio piatto e si mangia lì su una panca esterna o in un piccolo spazio interno, oppure si porta via e si mangia altrove. Proprio di fronte c’è un centro sociale e nella facciata un murales che ritrae Fidel Castro.
Mi chiamano perché è il mio turno per i rigatoni e quando mi alzo, chi era seduto accanto a me mi dice: “Eliana, sei tu?”. È Pasquale, un ragazzo di Libera, conosciuto nel lontanissimo nord di Dobbiaco l’anno scorso. Se ci fossimo accordati su un appuntamento non sarebbe mai successo. Il rigatone unisce.
Prendo il mio piatto di rigatoni, che già a guardarlo ti mette l’acquolina in bocca, e scopro che il ragù napoletano non è come quello a me noto, nella variante bolognese con salsa o palermitana con capuliato. È carne al sugo, stracotta e stracondita, e proprio per questo così tenera da sciogliersi in bocca. Il ragù napoletano è proprio un atto d’amore verso gli altri. Ecco, chi fa un ragù del genere è una persona che sa cosa è l’amore.
I rigatoni al ragù sono deliziosi e io mi sento rigenerata. Mi dispiace solo che forse non riuscirò a tornare per mangiare altro, ma avrei assaggiato tutte le paste e anche i panini di Tandem.
Dopo aver finito i rigatoni faccio due passi. Non becco più Pasquale che mi aveva detto di raggiungerlo in un bar li vicino. In compenso scovo un vicolo con un negozio di strumenti musicali e proprio dietro un altro dedicato a Pino Daniele. Chissà se stava lì. In città, comunque, di omaggi a Pino ne ho visti parecchi.
Da lì ritorno verso il b&b, ma i rigatoni mi hanno ricaricata e dalla mappa sul navigatore, vedo che il Rione Sanità non è così lontano. E allora mi metto a camminare.
Il pomeriggio di Sanità e insanità e di storie bellissime:
Supero la via Cavour e mi addentro verso la piazza su cui si apre una diramazione: destra o sinistra? Vado a destra, non prima di aver scorto sulla piazza la pasticceria Poppella, altro must gastronomico da non perdere. Ma ho ancora i rigatoni sullo stomaco. Il fiocco di neve può attendere (un poco).
Mi avventuro: vicoli, qualche ragazzo in moto che mi osserva. Faccio finta di essere un’ autoctona con i miei auricolari attaccati allo smartphone, che però non trasmettono le ultime hit del momento, ma cercano di farmi capire dove sto andando. E capisco che da lì continuo a salire, ma ho perso la strada maestra e allora torno indietro, non senza vedere cose belle: il Napoli calcio e Maradona, case a pianterreno, vita vera, silenzio. Ritorno alla diramazione. Stavolta ci sono: Via Sanità è una lunghissima strada, un po’ serpentina, che arriva sino a Fontanelle, questo cimitero che avevo segnato tra le cose imperdibili da vedere, confermato dall’esser presente anche nella lista di Mariano.
Qui non c’è davvero quasi nessun turista. Tranne alla Pizzeria “Concettina ai tre santi”. Sono le tre anche sull’orologio e c’è una fila interminabile fuori! Che poi, non le bastava un santo? Anche qui: la maestosità di Napoli.
Proseguo, sapendo mestamente che non tornerò a mangiarvi la pizza. Subito dopo la pizzeria, però, mi rallegra un’altra aria di casa: interiora in bella vista. C’è un tripparo, con l’immancabile riferimento a Totò e a “vota Antonio La Trippa”. Mi aspettavo di vedere più cose legate a Totò al Rione Sanità e in realtà in tutta Napoli. Invece no. O forse sono io che non le ho scovate.
Proseguo e davvero mi addentro nella Napoli lontana dal turismo. Solo qualcuno si spinge verso Fontanelle come me. Ma io sono fiera di essere sola e cerco di sembrare il più possibile una del luogo. Non per timore. Ma perché non voglio fare la turista a casa delle persone. Per il rispetto che si deve a chi ti accoglie a casa sua.
A metà strada circa, c’è una piazza, con due grandi murales a poca distanza l’uno dall’altra. La street art a Napoli ti sorprende. È uno strato nuovo sulla città che non cozza con il vecchio.
Procedo verso Fontanelle, e cammino almeno altri 15 minuti. Una chiesa e un prospetto tutto colorato mi accolgono, quasi a contrastare l’oscurità e il clima di mistero del cimitero.
Appena arrivo capisco subito che questo posto è il premio per la lunga camminata. Entro, saluto un tale all’ingresso. Gli chiedo se c’è un biglietto per accedere. E lui mi rassicura subito che c’è libero accesso. In tre parole: un posto magico. Una vecchia cava di tufo, piena di teschi, migliaia di teschi. Che detto così non rende l’idea. Non ho neanche io un’idea precisa del perché, fin quando non è tornato il tipo dell’ingresso: Raffaele, il custode.
Che poi in realtà non sono nemmeno sicura che sia il custode del cimitero. Però è senz’altro uno che ha passato molto tempo lì ed è uno degli incontri da incorniciare di questo mio viaggio napoletano.
Raffaele mi si materializza nell’oscurità, non senza qualche battito cardiaco di troppo, dovuto alla sopresa, e mi incalza con le sue domande. Le classiche domande fatte per darti una risposta, che tu le voglia o no. Lui ti ha scelto e tu lo devi ascoltare. E io mi faccio interrogare, come un’alunna diligente ma non troppo preparata, che si arrampica un po’ sugli specchi e punta tutto sulla simpatia e sulla capacità di arrangiarsi per superare l’esame.
“Perché? Lo sai perché, Eliana?” E così Raffaele comincia a raccontarmi la storia di Fontanelle, dei suoi teschi, della devozione di secoli che i napoletani hanno per questo posto. I resti della povera gente, ammucchiati qui e ancora nel sottosuolo, sono stati adottati da altra povera gente. Un gesto di amorevole cura, ma anche di speranzose richieste: quella di sposarsi, di guarire da una malattia, di tornare a casa dalla guerra, e così facendo. Sino ad arrivare alla richiesta delle richieste: i numeri vincenti al lotto! Per un napoletano niente di più profanamente sacro al pari di Maradona.
E a dire il vero, tra tutti i teschi, ce n’è uno che pare sia proprio specializzato in questa ars indovina sui numeri da giocare al lotto. E’ Concetta, che si riconosce subito per due caratteristiche: il suo cranio è lucidissimo e la sua teca è circondata di ex voto tra i più disparati. In realtà ognuno lascia qualcosa, anche il biglietto della metro o una caramella. Non sia mai che a Concetta venga voglia di fare un passaggio alla metro Toledo per guardare il mare sul soffitto.
Poi c’è la storia del Capitano. Qui la vicenda è un po’ più complessa e c’è di mezzo l’amore travagliato di una coppia del passato. Infatti, io che sono single, vengo affiancata nel racconto da due ragazzi romani, capitati lì al momento giusto e agguantati da Raffaele. Il Capitano pare che fosse un monito per i fidanzati gelosi. Raffaele dice pure che una volta l’ha visto in carne e ossa. Non è una battuta…
Poi l’ultima storia, la new entry di Fontanelle: quasi all’ingresso c’è una piccola teca che contiene i resti di una bambina. La teca è piena di giocattoli. Una madre che ha perso la sua, l’ha adottata qualche mese fa. Una licenza concessa alla donna a causa della sua triste condizione e in deroga alle norme che adesso vietano ai napoletani di “adottare” un teschio.
Saranno vere le storie di Raffaele? In ogni caso, sono belle. Lo saluto e vado via da Fontanelle.
La strada del ritorno sembra sempre più breve. Alla pizzeria da Concettina c’è sempre fila. Da Poppella no. Mangio questa soffice nuvola di crema a cui è stato dato il nome di fiocco di neve. Un nome che a Napoli fa un po’ ridere, ma è buonissima. Compro le sfogliatelle da portare a casa. Ma compio un primo tragico errore! Si ammolleranno il giorno dopo, nel contrasto freddo caldo del frigorifero e del mio trolley. La sfogliatella va mangiata espressa.
La sera in azzurro: la profondità azzura di Toledo e la Pescheria Azzurra
Ritorno al b&b. In fondo è presto ma preferisco riposare un po’ e poi uscire per un aperitivo.
Devo ancora prendere la Metro e vedere il buco azzurro di Toledo. Un buco azzurro che risucchia e ti tira su dalla profondità di centinaia di metri nel sottosuolo di questa incredibile galleria sotterranea.
Quando esco da Toledo, però, sono io a venir risucchiata dal casino del sabato sera su via Toledo. Questo non mi piace e dopo essermi avventurata sino a Piazza Plebiscito, punto su Pignasecca, dove spero di bere una birra allo Spiedo d’oro. Ma la tavola calda ancora non funziona come bar! È troppo presto e il mercato sta giusto smontando. Allora vado alla Pescheria Azzurra, anche nota come Pescheria Gagliotta, un’altra tappa vivamente consigliata da Mariano. Aspetto un po’ per sedermi ma finalmente ho una mezza birra: è una Peroni. Mi manca la Forst.
Mi diverte l’analogia con la taverna azzurra. Mi siedo, ho dei francesi accanto. Li ascolto. Sono divertiti e impazziscono appena gli arriva la pasta con le vongole. Me l’aveva consigliata Mariano ma non ce la faccio. Già è tanta la frittura che prendo.
Mi portano il conto in fretta perché c’è una fila interminabile per sedersi e io da sola sto occupando un tavolo per quattro. Decido di far strada verso via Tribunali. Su via Toledo, in Piazza Carità, sento cantare. Ma non è un concerto e nemmeno un’artista di strada. È una messa cantata all’aperto. In napoletano ovviamente! Ci andrei ogni giorno a messa se fosse sempre così.
Il mio sorriso stampato in faccia non fa che crescere in questi miei giorni di permanenza in città.
Passo da Piazza Bellini, dove ieri avevo bevuto un amaro con i ragazzi. C’è ancora poca gente. Non conosco nessuno, mi dispiace un po’ non avere un amico con cui bere un’altra birra. Ma sono anche stanca e non mi va di sedermi e socializzare così dal nulla. Ritorno verso casa, non prima di aver comprato i taralli con le noci ed essermi fermata a vedere 5 minuti di partita del Napoli ad un Eurobet con la tv su via Tribunali.
Guardando una partita di calcio e sgranocchiando taralli mi sono sentita un po’ napoletana anche io.
Torno al b&b, risalendo verso la piazza SS. Apostoli. Tre scugnizzi scappano e quasi mi vengono addosso nella foga della loro fuga. Capisco perché appena avanzo ancora un po’: un cestino in fiamme nella piazza davanti al Liceo. Maledetti botti.
Letteralmente crollo nel mio letto.
Giorno 3: domenica
Napoli dall’alto:
È il mio ultimo giorno qui e devo fare ancora un sacco di cose! Lascio a Paola il mio trolley.
Prima destinazione: Scaturchio per sfogliatella frolla da asporto. Mi contengo, anche se mi sarei mangiata un’altra riccia (che vince nettamente la competizione con la frolla).
Arrivo alla Funicolare di Montalto che mi porta sino alla fermata Morghen, a Castel Sant’Elmo e San Martino. Qui c’è solo il panorama ad attendermi: una vista su Napoli che l’avvolge tutta e che avvolge anche me. Si vede chiaramente Santa Chiara e anche Spaccanapoli.
Mi mangio la mia sfogliatella. Con una vista così ha più gusto. Poi entro a San Martino, soprattutto per vedere la parte restante del panorama: quella sul golfo di Napoli.
Visito la Certosa. Tutto è un po’ lasciato all’abbandono ma è bellissima. Specie il chiostro pieno di teschi agli angoli della balaustra. Questo legame di vita e di morte è un altro filo doppio con Palermo. Memento mori…quindi prima vedi di spassartela. La mia personale reinterpretazione.
San Martino è soprattutto la terrazza sul giardino e sul golfo di Napoli. Vale il prezzo del biglietto. Foto di rito e scarsi tentativi di selfie con vista mare, rovinati dalla luce contro, fortissima.
Per ritornare giù, questa volta scelgo le scale, i 400 gradini della Pedamentina di San Martino. Un percorso bellissimo, rovinato dall’incuria e dai cocci di bottiglia per terra. I comitati civici di quartiere manifestano il loro disappunto con molti manifesti che si ritrovano lungo tutto il percorso. Arrivare qui non è facile. Vedo gente tornare a casa con sacchi della spesa. E gli anziani? I disabili? Si deve amare molto questo posto per sopportarne i disagi. Ma è vero che la vista da qua su è bellissima.
Arrivo giù di nuovo a Montesanto. Lungo le scale c’è un delizioso mercatino vintage e mi accorgo che ci sono delle associazioni di quartiere che stanno rivitalizzando l’area con varie iniziative. Il mercatino è una di queste.
I quartieri spagnoli e le cose che mi divertono
Comincio a cercare la pizzeria per pranzo: obiettivo Margherita! Avevo già rinunciato a Sorbillo, il pizzaiolo più famoso della città che è diventata una vera attrazione turistica al pari del Cristo Velato!
L’unico errore di tutta la vacanza: la scelta della pizzeria. D&D: delusione e digestione lentissima per tutta la giornata. Ma le pizzerie migliori in zona sono tutte chiuse la domenica e io non ce la faccio più a camminare.
Per fortuna ci sono i Quartieri Spagnoli, la parte di Napoli più simile a Palermo. Anzi forse l’unica. Street art e un Maradona gigante. Mi piace tantissimo camminare qui. I volti, la Domenica, il pranzo in famiglia. Tutti comprano i dolci per il pranzo. Proprio come a Palermo.
Arrivo sino a Chiaia, strada borghese di negozi e caffè. E’ domenica e tutti sono qui a godere della giornata all’aria aperta, di un autunno che sembra ancora lontano.
Caffè e sosta a Piazza Plebiscito sotto i portici: osservo, annoto. C’è un bambino che gioca a pallone con una maglia che porta il numero 89. Continua a chiedere a tutti: “ La sai fare la Veronica?”. Capisco che si tratta di un passaggio all’indietro del pallone. Per intenderci, la fai sollevare colpendola in modo tale che ti vada alle spalle e poi possa darle un colpo di testa. In realtà neanche lui la sa fare molto bene. Ma lo chiede a tutti. E con sua grande sorpresa, una ragazzina più grande riesce nell’impresa. Penso che in quel momento avrà subito la sua prima grande umiliazione da parte del mondo femminile.
Annoto alcune cose strane che mi è capitato di vedere girando per strada:
- i pupazzi che segnalano le nascite, nei portali di ingresso delle case del centro storico: rigorosamente incellofanati. Prevalenza di nascite femminili. Lo dimostra il colore rosa predominante. Non c’è statistica che tenga. Lo dicono i portali.
- dappertutto, nelle friggitorie, leggo “arancini”. Ma i napoletani, nella lingua orale, per evitare problemi con i siciliani le chiamano palle di riso. L’unica cosa che non riesco ad accettare dei miei amati napoletani.
Ripongo il notes in borsa e penso a come passare le ultime ore in città.
Avevo pensato di andare al Maschio Angioino a visitare una mostra su Ligabue, ma la domenica niente visite pomeridiane. Allora cambio programma e vado verso il mare. Voglio stare fuori.
Mi fermo proprio all’inizio del lungomare, in prossimità di un porticciolo. C’è gente in costume e altri che fanno il bagno, in un punto di mare in cui io non immergerei neanche un dito. Ma sono tutti felici ed è ciò che conta.
Resto lì per un po’, in sosta e con davanti a me il Vesuvio. Mi chiama un amico da Palermo. Parliamo un po’, ma questa città non mi fa sentire sola. Sono serena e felice come non succedeva da tempo. Mi dispiace proprio andare. E ho già voglia di tornare.
Ritorno su via Toledo da Santa Lucia. Vorrei fare foto ad ogni passo. E ad ogni passo una storia. Che patrimonio di umanità che è questa città.
Ho le ultime ore da impiegare. Vado a vedere una mostra sulla pop art a Palazzo Zevallos. Finisco presto. Ora che faccio? Di mangiare non se ne parla. Vado verso i decumani, entrando in una libreria che avevo visto in mattinata. Fa un caldo infernale. Non riesco a leggere. Non voglio comprare libri per non appesantirmi. E’ presto ma io sono stanca.
Decido di andare a prendere il bagaglio da Paola e recarmi in stazione prima che faccia buio. Saggia decisione. La stazione non è mai un luogo bello, specie di sera, specie in una grande città. Insieme a tanti altri turisti prendo il bus che in 15 minuti arriva in aeroporto.
Accanto a me una ragazza francese: sta riguardando sullo smartphone le foto della sua vacanza. Chissà se anche lei ha mangiato la sfogliatella da Scaturchio, chissà se anche lei è rimasta incantata dal panorama da San Martino, chissà se si è innamorata dello sguardo di un napoletano?
“Nous sommes arrivées?” Si, le rispondo in italiano. Le parole non mi escono, neanche in francese, talmente sono stanca. Ho voglia di una doccia e di mettermi a letto. L’attesa è tranquilla e veloce in aeroporto. Questa volta il mio volo parte in orario. Torno a casa. Con due chili in più e una città meravigliosa nel cuore.
In un muro proprio all’uscita del mio B&B c’era questa scritta, che è la sintesi perfetta di questo viaggio:
“Di chi ti ricordi per sorridere?”
Vir Napule e po’ muori. Solo su questo e sugli arancini non sono d’accordo. Perché vedi Napoli e poi torni. E io ritornerò di certo.